performance based advertising

La pubblicità online ha 2 facce: quella di chi la compra (l’inserzionista) e quella di chi la vende (l’editore). In mezzo può esserci una sorta di “intermediario”, ovvero una terza parte che raccoglie i soldi degli inserzionisti e poi gestisce ed eroga i banner sui siti degli editori (trattenendo una parte dell’investimento e lasciando il resto al gestore del sito): un classico esempio è il binomio Google AdWords/AdSense. Nel corso degli anni ho notato che, pian piano, l’inserzionista si è avvantaggiato ai danni dell’editore: intendo dire che oggi la bilancia pende sempre più verso l’inserzionista, mentre l’editore devi farsi “la punta al cervello” se vuole cercare di continuare a guadagnare (più o meno) come prima.

Dal CPM al CPC

Alza la mano se ricordi i bei tempi in cui il CPM (importo pagato per ogni 1.000 impression erogate) era di diverse decine di euro: con pochissime pageview potevi fare parecchi soldini, e l’assurdo era che (spesso) chi comprava gli spazi pubblicitari non chiedeva nemmeno un report di quanto erogato! Ovviamente questa situazione era troppo sbilanciata a favore dell’editore, e infatti l’idea del CPC (importo pagato per ogni click effettuato sul banner) contribuì a riequilibrare un po’ le cose: l’inserzionista paga solo per i click fatti dall’utente sul banner, e NON sulla mera “esposizione” del banner sul sito. Questa idea è alla base del successo (economico) di Google.

Dal CPC al CPA

Se fino al CPC possiamo dire che i vantaggi/svantaggi sono grossomodo divisi fra editori e inserzionisti, con l’avvento del CPA è l’editore che ha la peggio: l’inserzionista lo paga infatti solo se ottiene una determinata “azione”, che può essere l’acquisizione di un lead (CPL) o una vendita (CPS). Eccoci arrivati al concetto di performance: la responsabilità del risultato è in capo all’editore, che deve quindi inventarsi tutte le tecniche e strategie possibili e immaginabili per far guadagnare l’inserzionista, con lo scopo di ottenere la sua “fettina”. Se l’editore non porta azioni (vendite o lead), non viene pagato.

L’editore fra incudine e martello

Se a inizio secolo gli editori si mettevano in tasca lauti stipendi incollando 4 bannerini sui loro siti (praticamente senza sforzo), oggi gli inserzionisti hanno il coltello dalla parte del manico: misurano ogni cosa (e sempre meglio), e con tutti gli strumenti automatizzati disponibili sul mercato (vedi programmatic advertising) sono in grado di scartare automaticamente dal loro inventario i siti che non performano bene tenendo solo quelli che portano risultati. Aggiungiamo il fatto che con Google AdWords puoi mostrare le tue inserzioni solo sul motore di ricerca, e soprattutto che con Facebook Ads puoi targhettizzare i tuoi annunci pubblicitari in un modo estremamente granulare, senza aver bisogno di un editore esterno al social network: insomma l’editore, inteso come sito web, è sempre meno necessario per promuovere/vendere qualcosa. E allora cosa sono ridotti a fare, nel 2018, questi poveri editori? Vendere post e pubbliredazionali, e scrivere contenuti zeppi di link affiliati. Se sui guest post e sugli advertorial Google ha già annunciato da anni un certo rischio di penalizzazioni, sui contenuti con affiliazioni sono i lettori a mostrare spesso un certa intolleranza. Mala tempora currunt…


Max Valle

Da oltre 30 anni, supporto aziende e professionisti nel mondo digitale. Offro consulenza strategica e servizi innovativi, dalla transizione digitale all’applicazione dell’intelligenza artificiale, con focus sulla crescita aziendale attraverso il digital marketing. Digitalizza la tua azienda ed acquisisci nuovi clienti in modo etico ed efficace, sfruttando le più recenti tecnologie web e raggiungi i tuoi obiettivi nel pieno rispetto delle normative.

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