La Columbia University ha condotto un sondaggio sullo stato del giornalismo digitale, e ha concluso che i giornalisti devono ripensare alle loro relazioni – e alle relazioni che ha il loro pubblico – con gli inserzionisti. Questo non significa cedere il controllo editoriale agli sponsor, ma potrebbe invece significare il dover trovare una alternativa al sistema di remunerazione basato sulle impression, creare contenuti di alto valore per il web basandosi sui dati delle pageview, e aiutare ad assicurarsi che agli annunci pubblicitari abbiano essi stessi un valore.

Nel report rilasciato dalla Columbia University vengono delineate queste ed altre raccomandazioni, tutte destinate a aiutare giornali, riviste e TV a competere al meglio online. “Non stiamo suggerendo ai giornalisti di seguire la tabella di marcia degli inserzionisti” afferma Bill Grueskin, decano della scuola di giornalismo e co-autore del report. “Stiamo dicendo che i giornalisti dovrebbero comprendere meglio il motivo per cui i soldi della pubblicità hanno abbandonato i tradizionali media”.

E, ha aggiunto, una miglior comprensione di ciò che i media possono fare per portare soldi. Per uno che ha una scuola di giornalismo, stimata come quella della Columbia, parlare di queste cose potrebbe sembrare quantomeno “non convenzionale”. Ma è una conseguenza del crescente interesse del mondo accademico circa le basi economiche del giornalismo, in un momento in cui queste basi sembrano molto instabili. La Columbia e alcune altre scuole di giornalismo, ad esempio, offrono ora corsi sull'”economia del giornalismo”. La conclusione dello studio si apre con una frase di Randall Rothenberg, capo dell’Interactive Advertising Bureau ed ex-reporter del New York Times: “Il problema è questo: i giornalisti non capiscono il loro business”.

La cosa viene ripetuta più volte nel report. “Molti settori dell’industria delle notizie sono stati lenti ad accogliere i cambiamenti portati dalla tecnologia digitale”, e consiglia quindi “un passo più veloce e sistematico nella direzione dell’innovazione e degli investimenti”. Si raccomanda inoltre ai giornalisti di “capire meglio come gli inserzionisti raggiungono i propri clienti attraverso i social media, i nuovi annunci pubblicitari e i motori di ricerca”, e ai grossi editori di valutare la creazione di divisioni separate dedicate al digitale, “in particolar modo lato business”.

Gli autori del report hanno diagnosticato vari problemi ai media digitali. Il primo fra tutti è forse che la pubblicità sul web tende ad avere meno valore per il consumatore, rispetto alla pubblicità su altri formati. “Se hai mai osservato qualcuno mentre legge una copia di Vanity Fair, avrai visto che spende più tempo guardando la pubblicità rispetto a leggere il contenuto” ha affermato Grueskin, uno dei co-autori del report, “perché le pubblicità sono effettivamente utili per i lettori.” Uno dei casi di studio di “pubblicità a valore aggiunto”, preso in esame dal report, è stato quello di KSL.com, sito di Salt Lake City facente parte del network di NBC. Grazie ad una grossa sezione di classified ad, il sito registra ormai circa 250 milioni di pageview al mese, una cifra incredibilmente alta per un mercato di quelle dimensioni. Il forte calo dei classified ad ha colpito duramente i giornali, ma non KSL.com: quella sezione del sito è gestita dalla Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, ed è stato il primo sito di Salt Lake City a partire in quel campo, prima ancora di Craigslist. Secondo Grueskin, il successo del sito è derivato anche dal suo riflettersi nei valori morali della comunità locale, e nel vietare l’anonimato: “se fossi un editore, spenderei del tempo a capire come KSL.com ha gestito i classified ad, rispetto a come lo fa Craigslist”, ha affermato. Grueskin è stato colpito da un commento che Chris Hendricks, vice presidente di McClatchy, ha rilasciato nella sua intervista per il report: “è quasi come se fossimo una società di vendita e distribuzione che decide di finanziare il giornalismo”.

La forza vendita locale di Hendricks vende spazi sia su siti come Yahoo! che sui siti del proprio network. Gli autori dello studio affermano che il modello del CPM ha dei limiti, e pensano che editori e marketer insieme dovrebbero “studiare nuovi modelli che possano integrare gli annunci pubblicitari al raggio d’azione dei social media”. Come esempio cita il sito web del Dallas Morning News, che ha una sezione dedicata allo sport scolastico.

Un pacchetto pubblicitario in questa sezione, durante il campionato di football, include anche pubblicità su carta, il concorso del “giocatore della settimana” e una cena con i giocatori alla fine della stagione. Secondo Grueskin, “questo modello esce dalla vecchia logica dei “5 dollari ogni 1000 pageview””. Gli autori del report mettono anche in guardia i siti di news che come modello hanno quello degli abbonamenti a pagamento, avvertendo che “attualmente hanno aspettative limitate di successo – almeno sul web”.

Le prospettive al rialzo sono invece nelle subscription di news via mobile: “se gli editori sperano davvero di cancellare il “peccato originale” dell’aver dato contenuti gratuiti online, possono essere in una posizione di vantaggio non dentro i computer dove per anni hanno regalato contenuti, ma sui dispositivi mobili che offrono attualmente un ambiente più idoneo per questo genere di business”.

Liberamente tradotto da For Journalists, a Call to Rethink Their Online Models, di Brian Stelter.