Così come ogni individuo è potenzialmente un media per via dei moderni canali digitali, ogni dipendente o collaboratore dell’azienda è di fatto un possibile touchpoint verso l’esterno.
Questo pone una serie di interrogativi che necessitano un pensiero strategico e degli interventi strutturali. In che modo diffondere le competenze necessarie all’interno delle organizzazioni per interfacciarsi con i “connected customers”? Quali sistemi di governance vanno implementati per coordinare i canali di relazione con l’esterno da parte di più dipartimenti? Che tipo di piattaforme tecnologiche sono necessarie per gestire efficacemente queste relazioni digitali così distribuite? Quali metriche applicare per monitorare e misurare le attività dei singoli dipartimenti?
Considerando che la presenza digitale dell’azienda consta generalmente di molteplici canali web e social, occorre identificare obiettivi e sistemi di gestione dei differenti reparti aziendali coinvolti e, per ciascuno di questi, impostare le relative aree digitali. Il concetto di fondo è che i touchpoint digitali di ogni organizzazione non possono più essere curati esclusivamente dai reparti marketing o comunicazione come normalmente avviene, ma vanno raccordati in un piano complessivo sviluppato con tutti i team coinvolti.
D’altronde la forte spinta ad una maggiore permeabilità delle aziende arriva proprio dal mercato perché i consumatori, di fronte a diversi punti di contatto con le organizzazioni, scelgono quelli più consoni alle loro esigenze, indipendentemente dall’obiettivo (palese o meno) che si erano poste originariamente le aziende. Una delle situazioni più frequenti, è quella delle pagine aziendali Facebook nei casi in cui vengono costruite come mero strumento promozionale, i cui contenuti sono tutti focalizzati a rafforzare (o a tentare di farlo) i valori di marca e le sollecitazioni d’acquisto, mentre per i consumatori sono un comodo strumento per porre quesiti sulle caratteristiche dei prodotti, oppure per chiedere supporto post-vendita.
Inutile sperare che il consumatore si comporti come uno scolaretto che deve eseguire dei compiti prefissati e mettersi a cercare il canale che l’azienda ha deputato alle specifiche attività. Al contrario, appena si imbatte in un ambiente di relazione digitale sul quale può indirizzare un messaggio, lo utilizza sicuramente senza porsi particolari domande. Il problema è che la gestione dei canali online, specie nei casi delle pagine Facebook autoreferenziali citate prima ad esempio, genericamente è affidata a team che non hanno competenza o autorità per rispondere adeguatamente alle sollecitazioni ricevute; qualche volta sono addirittura delegate del tutto ad agenzie esterne.
E allora succede che le istanze degli utenti vengono reindirizzate altrove, talvolta verso canali analogici o tradizionali (“per queste cose può chiamare il call center oppure scriverci a…”) risultando evidentemente in imbarazzante contrasto con il carattere bidirezionale dei social media. Capita anche di vedere pagine aziendali Facebook che alternano comunicazioni prettamente promozionali, seguiti da domande o commenti degli utenti relativi ad argomenti pratici o di supporto, a cui nessuno risponde… Evidentemente non c’è un modo unico per gestire questa situazione.
L’unica certezza è quella di dover preparare l’azienda ad interfacciarsi in modo moderno col mercato, rinunciando a creare barriere o percorsi forzati nelle relazioni col mondo esterno, ma semplificando e armonizzando i momenti di contatto, cercando l’equilibrio tra un modello organizzativo efficace e la capacità di rispondere in modo adeguato ed efficiente a tutti gli stakeholder. In definitiva, questo è uno degli ambiti del Social CRM, che possiamo considerare non solo un’evoluzione dei sistemi di gestione delle informazioni sulla customer base arricchiti dai profili social degli individui, ma un modello di relazione evoluto e decisamente diverso dal passato; relazione che ora diventa dinamica, bidirezionale, multicanale.
Moltiplicare i punti di contatto tra le persone dell’azienda e l’esterno, crea di fatto la necessità di un percorso di change management e necessita di un disegno strategico composto da una serie di componenti dei quali l’education è quello fondante, come mostrato nel seguente schema il quale riporta un esempio di mappatura dei touchpoint, poggiata su alcuni elementi strategici da cui non si può prescindere).
Per Education intendiamo quelle pratiche per diffondere conoscenza e best practice riguardo la digital transformation. Oltre un primo stadio informativo di scenario e uno più specifico riguardante i diversi canali digitali, serve una comprensione profonda dei cambiamenti che tali strumenti hanno introdotto nella relazione tra aziende e stakeholder. Occorre quindi abilitare una “digital literacy” diffusa, alimentata in modo continuativo e orientata a creare la consapevolezza su rischi e opportunità inerenti il digital per ciascun dipartimento aziendale.
Le modalità per sviluppare dei programmi di education interna sui temi “digital”, sono differenti in funzione del tipo di organizzazione, dalle sue dimensioni e dal mercato in cui opera. Possiamo tuttavia considerare come necessari sia degli interventi pensati per trasmettere knowledge, erogati tipicamente attraverso seminari e workshop, oppure mediante webinar o programmi di e-learning, sia supporti informativi e di riferimento efficacemente fruibili tramite repository digitali. Va aggiunto che un buon piano di education esalta e consolida i suoi risultati, se abbinato ad un percorso di collaborazione interna, tipicamente poggiato su una piattaforma tecnologica apposita; in questo modo si abilita un modello bottom-up che stimola la partecipazione e la condivisione di competenze ed esperienze, a beneficio dell’intera organizzazione.
Naturalmente non basta portare la conoscenza in ambito digital lungo tutta la compagine aziendale. Va anche impostata un’apposita struttura di Governance che identifichi puntualmente chi e quando può intervenire nel dialogo con l’esterno, con che autorità in termini di prese di posizioni e contenuti, in che forma, su quali canali, e così via. E se parlando di education abbiamo evidenziato come un progetto allargato e condiviso produca i migliori risultati, al momento di impostare la governance occorre una forte sponsorship del management, a patto che non abbia un imprinting dirigista e regolatorio, ma viceversa auspichi la partecipazione e partecipi direttamente, ove possibile, alle interazioni.
Ovviamente il governo dei canali digitali risulterà più chiaro e facile da impostare se è stata precedentemente definita una altrettanto chiara digital e social strategy che enunci, tra l’altro, gli obiettivi puntuali e le relative metriche su cui verranno analizzati i risultati. È poi opportuno predisporre una Piattaforma tecnologia per rendere più efficiente la gestione di queste relazioni multicanale. Gli strumenti più moderni contengono funzioni di alerting e di analisi delle discussioni online, nonché di project management e di analytics. Per strutture più complesse, arrivano ad interfacciarsi direttamente con le piattaforme CRM aziendali e quelle web, abilitando sofisticate opportunità di comunicazione personalizzate.
Questo è un altro ambito alla base del Social CRM, in cui l’acquisizione e la gestione di nuovi dati riguardo le persone, innesta un’ampia serie di inedite opportunità. Più avanti tratteremo ad esempio il tema della “profilazione progressiva”, la quale mette sul tavolo dei marketer un’impostazione piuttosto differente riguardo la relazione “cliente-dato”, sia nel modo di alimentare i database informativi, sia nelle azioni che tali informazioni scatenano più o meno automaticamente. Ma oltre alle relazioni dialogiche con gli stakeholder, i diversi dipartimenti aziendali possono essere coinvolti anche nella produzione di Contenuti, un presidio tipico dell’area Comunicazione che oggi va considerato da un punto di vista più allargato.
Parliamo infatti di Employees generated content, intendendo sia i contributi che i collaboratori dell’azienda realizzano nell’ambito della loro specifica funzione, sia quelli presenti nei loro profili social potenzialmente riconducibili all’organizzazione di appartenenza. Serve quindi un rinnovato concetto di piano editoriale, in modo da combattere adeguatamente la “guerra dell’attenzione” capitalizzando tutto il knowledge presente in azienda. Piano editoriale che tipicamente si innesta con pratiche di storytelling e strategie di content marketing, che non ha più senso confinare in un dipartimenti specifico, ma che ha invece bisogno di una collaborazione diffusa in azienda.
È chiaramente cruciale impostare un’organizzazione efficiente che capitalizzi il patrimonio di contenuti presente tipicamente in ogni struttura, ma troppo spesso non valorizzato nei modi opportuni. L’errore più comune che si fa a proposito dei contenuti aziendali, è quello di immaginare modalità di creazione e formati tipici dei media tradizionali.
Ovviamente la maggioranza delle organizzazioni non produce contenuti come mestiere principale, per cui il punto è capire come scovare, stimolare e acquisire il valore editoriale presente, per poi “distillarlo” e renderlo idoneo per essere pubblicato online. In pratica: non si può pretendere che improvvisamente tutti i manager si mettano a conversare sui canali social o ad alimentare blog e forum; si può invece analizzare tutte le occasioni in cui producono contenuti (e sono molte, talvolta sottovalutate) e poi impostare un lavoro editoriale che adegui questo materiale in funzioni degli ambiti digitali a cui può essere destinato.
Ma come si armonizzano gli strumenti online aggiungendo il layer composto dai differenti dipartimenti aziendali? Appare piuttosto evidente che l’impiego dei Canali digitali dell’azienda, non può essere più inteso secondo un mero approccio di presidio (“abbiamo il sito web, la pagina Facebook, il canale Twitter, ecc.”), ma va pensato in funzione degli ambiti di contatto con tutti gli stakeholder, individuando per ogni ambito gestito attraverso il digital, la corrispondente area online. In pratica, occorre individuare puntualmente i diversi obiettivi (promozione e informazione di prodotto, customer care, recruiting, vendita, conversazione, branding, ecc.) ed associare a ciascuno di essi uno o più canali digitali pensati e impostati di conseguenza.
Non serve necessariamente individuare aree digitali univoche per ciascun ambito di relazione, ma indubbiamente chiarire (anche trasparentemente verso il mercato) con quali strumenti si intende curarli e gestirli. Se ad esempio si pianifica di curare il customer support attraverso la Rete e la quantità di interazioni è significativa, è opportuno designare allo scopo uno strumento specifico (una pagina Facebook ad hoc, oppure un apposito canale Twitter o un forum all’interno del sito corporate); in questo modo, anche le istanze di customer support pubblicate dagli utenti su altre aree online, potranno facilmente e coerentemente essere indirizzate al luogo deputato.
Altrimenti, come sottolineavamo in precedenza, si autorizzano implicitamente gli utenti ad utilizzare per le interazioni con l’azienda qualsiasi canale che trovino online. In definitiva torniamo al noto mantra “mettere il cliente al centro dell’attenzione”, concetto facile da proporre ma non sempre perseguito dalle organizzazioni in modo compiuto. Pensare “con le scarpe del consumatore” significa in primis ascoltarlo e la Rete è ormai diventata il più grande focus group live mai esistito, tanto che le cosiddette attività di Listening sono ormai abbinate naturalmente a tutte le iniziative di social marketing.
In questo articolo non entreremo nei dettagli del funzionamento e delle technicalities relative all’analisi delle conversazioni online; ci preme invece evidenziare il carattere interdipartimentale di tali ricerche, perché troppo spesso sono invece considerate e interpretate solo riguardo ai valori di reputazione e di share of voice. Nella Figura successiva abbiamo sintetizzato una serie di contesti di analisi in funzione dei vari dipartimenti aziendali. Non solo va verificata l’opportunità per ciascun dipartimento di ottenere informazioni preziose per la propria area, ma banalmente va colta l’occasione di fare economie di scala nell’approntare la ricerca, condividendone i costi con altri reparti.
Autore: Mauro Lupi, partner OpenKnowledge, per il Max Valle.