Google ha il monopolio mondiale dei motori di ricerca – Asia a parte – e anche quello della pubblicità online, grazie al binomio AdWords/AdSense. Le advertising revenue di Google han superato nel 2010 quelle dei giornali cartacei,
distanziandoli da allora di oltre il doppio. Ma se il fatturato sale, non sembra fare altrettanto la crescita anno su anno. E c’è già chi dipinge un futuro a tinte fosche per il colosso di Mountain View. Il personaggio in questione è Ben Thompson, consulente che ha lavorato per aziende del calibro di Apple, Microsoft e Automattic, e che in un recente post sul suo blog – dal titolo Peak Google – ripercorre la storia di un paio di vecchie tecnologie eclissate da altre emergenti.
Thompson parla di come i PC han preso il posto dei mainframe, e più recentemente di come gli smartphone stanno prendendo il posto dei PC. Per la precisione, non è che i mainframe siano totalmente spariti a favore dei PC, e non è che gli smartphone abbiano sostituito in toto i personal computer: però le aziende che avevano in mano il mercato in quel momento storico (rispettivamente IBM e Microsoft) non hanno saputo sfruttare la loro posizione dominante, lasciando ampi spazi – o spesso sottovalutando – nuovi soggetti e nuove opportunità emergenti. E secondo Thompson, lo stesso sta accadendo oggi per Google.
L’intero mercato della search advertising vale qualcosa come 50 miliardi di dollari (a livello mondiale), e Google ne detiene la maggioranza. Ma la spesa globale in pubblicità, nel 2014, sarà di oltre 545 miliardi di dollari, e pare che questa cifra NON vada nella direzione del direct response, bensì in quella del brand advertising. In altre parole, i grossi marchi fanno pubblicità – e quindi spendono un sacco di soldi – per promuovere cose che non si comprano con un click. Lavorano per far entrare prodotti e servizi nell’immaginario collettivo. Per fidelizzare gli utenti, per legarli ad un brand per tutta la vita.
Ecco perché aziende che vendono beni di largo consumo, società di telecomunicazioni e case automobilistiche, investono tantissimo in brand advertising. Ed ecco forse spiegato perché, ancora oggi, questi marchi riversano gran parte del budget sui canali televisivi,
nonostante il fatto che su Internet – e sul mobile – si spenda sempre più tempo.
Native Advertising vs. Search Advertising
Da qualche anno, sul web sta emergendo una nuova forma di pubblicità: la cosiddetta Native Advertising. Per semplificare al massimo, è quando la pubblicità finisce per mescolarsi con i contenuti, rendendoli spesso indistinguibili: il fenomeno esiste sia sui social – da tempo su Facebook, Twitter e Pinterest troviamo annunci pubblicitari in-stream – che all’interno di molti quotidiani online e blog (dai semplici pubbliredazionali, fino ad integrazioni più complesse).
Il caso più estremo – e probabilmente più riuscito – di interpretazione di questo trend è quello di BuzzFeed: da editore orientato ai social si sta pian piano trasformando in una piattaforma per la promozione di brand, al punto da investire diversi milioni di dollari in BuzzFeed Motion Pictures, una divisione orientata alla produzione di video e mini-film. Un’altra importante quota degli ultimi finanziamenti ricevuti da BuzzFeed, verrà probabilmente destinata alla produzione di casual game: l’editore web si è trasformato in un media a 360°, in grado di rendere virali i suoi contenuti (pagati o non) e quindi raggiungere un pubblico ampissimo. E’ Native Advertising allo stato dell’arte.
E Google? Come si pone nei confronti della Native Advertising?
In passato, proprio su questo blog ho documentato i vari attacchi di Matt Cutts agli advertorial: Google, in buona sostanza, vuole che i contenuti pagati siano ben evidenziati dall’editore (con scritte tipo “Pubblicità” o “Contenuto Sponsorizzato”), e che non includano link che passano PageRank. Altrimenti rischia di scattare la penalizzazione del sito, con eventuale eliminazione dello stesso anche da Google News.
Google è una società con al centro il motore di ricerca, un sistema che ha l’obiettivo di premiare i contenuti di qualità e i link naturali, e di penalizzare invece tutto ciò che è pagato e innaturale. I banner di Google affiancano discretamente i contenuti, non li sovrastano: c’è addirittura una penalizzazione ad hoc per chi esagera in questo campo. Google è ancorato ad un mondo che pian piano si va sgretolando: quello dei banner, sempre più invisibili, sempre meno cliccati, sempre più bloccati da estensioni di vario tipo.
Quando i soldi della brand advertising inizieranno a spostarsi pesantemente dalla TV ad Internet, Google non riuscirà ad intercettarli. Finirà così?