Dirò qualcosa di impopolare, lo so, ma a me l’idea di Wikileaks di rendere pubbliche 250.000 “conversazioni private” non è piaciuta per nulla. Trovo la cosa fallimentare e pericolosa, e spiego subito il perché: Nessun utente medio è in grado di leggere/capire/giudicare appieno documenti che parlano di politica internazionale, di rapporti tra ambasciate e consolati, di mosse diplomatiche fra paesi amici/nemici. Non parliamo poi dell’italiano medio, dell’homo televisivus per eccellenza, tutto preso fra calcio e veline, fra Grande Fratello e Ruby Rubacuori. E allora, a predigerire i contenuti dell’immensa mole di file per poi darli in pasto all’uomo della strada, ci pensa la figura del giornalista. Peccato che sia quasi sempre un personaggio schierato, da una parte o dall’altra, che trova il massimo gusto nel calcare la mano sugli aspetti pruriginosi o semplicemente futili di questo o quell’uomo politico: basta leggere gli ultimi titoli dei vari quotidiani nazionali ed internazionali per capire di cosa sto parlando. Eccoci quindi al paradosso: Wikileaks nasce per liberare l’informazione, per far sapere ai piccoli le cose che i grandi vogliono tenere nascoste. Nasce all’insegna della trasparenza, della giustizia, dell’etica, della democrazia. Ma Wikileaks fallisce proprio nel non filtrare la montagna di dati in suo possesso, delegando alla funzione di filtro coloro che quotidianamente manipolano l’informazione. Che ognuno si prenda dunque le sue responsabilità: “Free speech is not speech without consequence”, diceva Lawrence Lessig.