Questa, in sintesi, la cronologia: Enel acquista spazi pubblicitari su Il Fatto Quotidiano, per promuovere lo sbarco in Borsa di Green Power. Il Fatto, nello stesso periodo, scrive sul tema un articolo non troppo morbido (“A Piazza Affari l’Enel cerca di sembrare verde”).
Enel, a detta de Il Fatto, stoppa la campagna pubblicitaria in essere, ma il giorno successivo precisa di “non aver mai disposto la cancellazione di pianificazione pubblicitaria a seguito di articoli critici”: insomma un qui pro quo, un equivoco, un malinteso. Non so se sapremo mai come sono andate davvero le cose, ma so invece che sul web funziona così:
1. Il modello editoriale su Internet è al 100% pubblicitario
Inutile sperare, per la stragrande maggioranza degli editori online, di poter far soldi con qualcosa di diverso dai banner. Bisogna stare sul pezzo h24, studiare nuovi modelli di business giorno e notte, guardare a quello che fa Murdoch ma alla fine del 2010, a far quadrare i conti, ci pensa ancora la pubblicità, i quadratini colorati appiccicati in mezzo agli articoli. E qualche DEM/newsletter. Insomma, il modello è ancora quello di un paio di lustri fa, nonostante in 10 anni, su Internet, ne siano successe di tutti i colori.
2. E’ dura mantenersi “nudi e puri”
Ho la fortuna di lavorare per un editore esclusivamente online, attivo da più di 13 anni, che ha fatto della netta divisione fra redazione e reparto commerciale il suo vanto (e la sua fortuna). Ma non so quanti altri possano, al giorno d’oggi, permetterselo: puoi farlo solo se raggiungi una posizione tale da poter essere considerato un opinion leader, un influencer, ovvero uno dei pochissimi siti nei quali la pubblicazione di un articolo può decretare o meno il successo di un prodotto/servizio.
Noi possiamo perché facciamo, all’interno della nostra nicchia, circa 4 milioni di utenti unici/mese (fonte Google Analytics). Se ne fai qualche migliaio al giorno, e se campi solo grazie a qualche campagna pubblicitaria, pensi di poter fare la voce grossa?
3. L’inserzionista ti detta l’agenda
O comunque ci prova. Ci sono settori dove il “pubbliredazionale camuffato” è all’ordine del giorno. Dove gli articoli vengono scritti da redattori e riletti/corretti/approvati da chi paga la pubblicità. Dove i voti/stelline delle recensioni vengono concordati a priori. Google, giustamente, si preoccupa dei siti che vendono link, e (se e quando li scova) li penalizza. Perché la compra-vendita indiscriminata di link inquina la qualità dei risultati del motore di ricerca, toglie loro valore e abbassa la fiducia nel come sono ordinati gli indirizzi che troviamo nelle SERP.
Ma forse dovremmo iniziare a pensare che la silenziosa compra-vendita dei contenuti è ben più grave di quella dei link. L’inserzionista “ricatta” l’editore online in quanto gli paga in toto lo stipendio. E l’editore, del quale magari ci fidiamo ciecamente, che crediamo imparziale e al di sopra di ogni sospetto, può influenzare a sua volta il lettore, portarlo ad acquistare questo o quel prodotto, portarlo a parlar bene (o male) di questo o quel servizio.
O peggio l’editore, inconsciamente, finisce per essere succube del banner, e prima di cliccare su “pubblica articolo” guarda il quadratino che gli assicura la pagnotta, e cambia 2 o 3 frasi e 2 o 3 aggettivi. Come diceva Montanelli, “La servitù, in molti casi, non è una violenza dei padroni, ma una tentazione dei servi.” Il vero problema è che oggi non ci sono alternative, non ci sono oggi modelli di business diversi da quello pubblicitario, “There is no agreed-upon business model for the future. Everyone is searching — no one is so obviously doing it right that others are rushing to emulate it.” (leggevo qualche mese fa su State of the News Media).
Sul web si parla tanto di “editori indipendenti”, ma da cosa sarebbero davvero indipendenti questi editori online?