Anche se non t’importa nulla di Internet e di cose per nerd/geek, avrai certamente notato che il mondo delle startup è entrato a pieno titolo all’interno del giornalismo generalista. Intendo dire che ultimamente TV, radio e giornali (online e offline) parlano piuttosto spesso di tecnologia e soprattutto di startup, come può testimoniare anche questa immagine presa da Google Trends:

Startup, una parola di moda

come puoi facilmente notare, il volume delle ricerche per la parola “startup” è piuttosto stabile, mentre è cresciuto in modo importante quello delle notizie che includono tale termine. Come mai? Perché siamo in un paese – o forse in un mondo? – dove da un lato la notizia leggera, modaiola e gossippara sembra ottenga buoni consensi da parte del pubblico, e dall’altro i tormentoni “crisi economica e politica” e “mancanza di lavoro” sono i mantra con i quali conviviamo quotidianamente. Questo mix è perfettamente presente in ogni discorso sulle startup che si affronta all’interno dei media: per un produttore cinematografico, è bello raccontare di un genio sfigato e un po’ arrogante che fra un causa legale e l’altra crea un impero economico partendo da una stanzetta di un dormitorio. Così come per un giornalista è bello raccontare di un 28enne, sempre vestito con la felpa, che in pochi anni diventa miliardario insieme ai suoi ex-compagni di scuola. Tutto diventa “startup”, tutto diventa “valley”: chiunque si metta in proprio, qualunque freelance, qualsiasi sviluppatore di siti web o di app oggi ti dirà :“ho aperto una startup.” E basta che una nuova azienda tecnologica nasca in un determinato luogo, che il giornalista si inventa una “valley”: abbiamo la “Sile Valley” di H-Farm, la “Sempion Valley” di NGI e la “Santa Lucia Valley” di CiaoPeople – giusto per citarne 3 – che si fregiano del titolo di “valle” anche se sono le uniche realtà di rilievo in quelle zone. Per non parlare dell’altro tormentone amato dai giornalisti, quello della “fuga dei cervelli”. L’ormai storica lettera aperta dello startupparo italiano in fuga, pubblicata quasi 2 anni fa su questo blog, ha contribuito ad aprire un filone nel quale i media si sono buttati a capofitto: quello dell’Italia – dove i talenti non sono valorizzati, dove la politica pensa a tutto fuorché alle startup, dove non ci sono VC/angel/investitori – contrapposta agli USA – il mito della Silicon Valley, del sogno americano, della possibilità di fare il botto vero. Il fatto che ci siano 2 schieramenti contrapposti – spesso rissosi – e non sia possibile dare una risposta certa e definitiva sul tema fa ovviamente il gioco dei media, che periodicamente spalleggiano chi scappa e fa fortuna all’estero, o – quando fa comodo – chi resta e lotta fra tasse, balzelli e problemi di ogni genere. Ma il mondo startupposo raccontato è ben diverso da quello vissuto. I giornalisti non riescono, anzi non vogliono parlare di startup italiane fino a che queste non salgono agli onori della cronaca. Ai media italiani non interessa raccontare della fatica silenziosa dei tanti che fanno startup in cantina sudando lacrime e sangue; interessa solo parlare di un miliardario con la felpa (o dei rarissimi italiani di chi ha pescato il jolly di Facebook o di DMGT, quando però il jolly l’han già tirato fuori dal mazzo). La startup viene trattata come una notizia di moda, anzi di gossip: del programmatore cantinaro non si parla, perché fondamentalmente non interessa a nessuno leggere di uno sconosciuto che silenziosamente si fa il mazzo fra righe di codice e doppio lavoro, fra uno stipendio da fame e l’ombra del fallimento. Mentre del giovane neo-miliardario in ciabatte si scrive eccome, perché la news con dentro le paroline magiche “Facebook” e “Tanti Soldi” vende bene. Più o meno come quella di Belen.