Premessa: in questo post non linkerò alcune notizie, perché un link è in buona sostanza un voto positivo, e davvero non mi sento di dare voti positivi allo schifo che vedo girare ormai da troppo tempo nell’editoria online.
E premetto anche che con “giornalismo morto” non intendo la carta morta (a favore del web), o i quotidiani online morti (a favore di blog e social): intendo invece dire che la stragrande maggioranza dei contenuti pubblicati su qualsiasi media, dopo anni e anni di pericolosa deriva, è finito in fondo al precipizio.
E da lì continua a scavarsi la fossa, senza un limite al peggio.
Forse un titolo più giusto per questo post sarebbe dunque “il modo di fare informazione è morto”, o “la disinformazione ha vinto”, non so.
Sta di fatto che ogni santo giorno che passiamo online sembra di svegliarsi sempre col calendario bloccato sul 1° Aprile: notizie sopra le righe, strampalate, morbose. Questo quando va bene.
Mi viene in mente quella della scrittrice che si “vendica” del suo coniglio e quindi lo uccide e lo mangia (vista su ANSA.it), o dell’autobus che investe l’alce ubriaco mentre il contachilometri segna il numero del diavolo (vista su Tgcom24): il tutto nella peggiore tradizione del link baiting (anzi, like baiting), ovvero dello scrivere di cose assurde per recuperare link e like, e fare qualche visita in più.
E per pompare gli accessi, non ci si concentra sullo scrivere buoni titoli (cosa sacrosanta), bensì su tecniche di click baiting dozzinali: titoli che suggeriscono contenuti incredibili, straordinari, da non perdere, quando dall’altra parte c’è in realtà una mezza sòla.
Ma più tipicamente troviamo notizie non verificate (che poi si rivelano false), o altre addirittura già “nate false”.
E attenzione: spesso non è nemmeno più questione di chi le scrive.
Una volta si dava la colpa ai blogger, che non essendo giornalisti non si sentono in dovere di sottostare alla famosa carta dei doveri del giornalista, carta che ad un certo punto recita:
Il giornalista deve sempre verificare le informazioni ottenute dalle sue fonti, per accertarne l’attendibilità e per controllare l’origine di quanto viene diffuso all’opinione pubblica, salvaguardando sempre la verità sostanziale dei fatti.
Mi chiedo quindi quante e quali verifiche siano state fatte da Il Mattino, Il Giornale e Libero (ma anche da Huffington Post, Mirror e El Mundo) prima di pubblicare questa notizia.
O anche quella della morte del padre di un giocatore ivoriano, anch’essa bufalina, anch’essa ripresa a destra e a manca da tutti i media senza essere prima verificata.
E cosa dire invece del quintetto (ma ce ne sono ormai a bizzeffe) dei siti di notizie totalmente false: Lercio, Il Corriere del Mattino, la Gazzetta del Nord, Notizie Pericolose e Corriere del Corsaro.
Strappano spesso un sorriso, ma al prezzo di confondere i lettori meno accorti che scambiano la bufala per verità, riamplificandola, ripubblicandola e condividendola con i loro contatti, in un gigantesco turbine dove non si capisce più dove finisce lo scherzo e inizia la notizia vera: e ovviamente si gioca tutto proprio sul NON chiarire esplicitamente questo punto, come dichiarato da Lercio a Lettera 43: Lercio non ha un disclaimer per specificare che si tratta di sito satirico. Come mai? R. Per lo stesso motivo per cui in un film comico nei titoli di testa non compare l’avviso “Questo è un film comico”.
E intanto questi siti fanno traffico, e ne fanno parecchio.
E siccome le pagine visualizzate sono oggi la sola moneta che paga il web, ecco che gli illustri quotidiani online mettono in bella mostra colonnine acchiappa-click e photo gallery ignobili, piene zeppe di cose che nemmeno “Cronaca Vera” ai suoi tempi d’oro.
Ed ecco che il cerchio si chiude con “Ah, ma non è Lercio“, pagina Facebook che raccoglie le notizie “alla Lercio” che compaiono però sui quotidiani seriosi, o che almeno tali dovrebbero essere.
C’è una giustificazione a questa deriva?
Gli amanti delle statistiche e dei numeri direbbero di sì.
Il punto è che certe notizie dell’ultim’ora, le cosiddette breaking news, interessano sempre a meno lettori.
Per essere più chiaro: l’articolo più popolare del 2013 sul New York Times, NON è un articolo, ma una sorta di quiz.
Gli articoli noiosi, quelli che richiedono attenzione, che implicano un certo sforzo, funzionano sempre meno.
Anche se i lettori, a parole, fingono interesse nei confronti di notizie sull’economia o la politica, in realtà prediligono temi leggeri, semplici. Vogliono evitare sfumature e sforzi mentali.
Quindi, cosa funziona oggi?
I nuovi modelli che sembrano funzionare meglio, perlomeno all’estero, e se ci ostiniamo a guardare solo il maledetto dato delle pagine visualizzate, sono quelli di BuzzFeed o Upworthy, che fanno della pubblicazione di contenuti in grado di esplodere viralmente sui social e dell’estrema cura dei titoli (Upworthy ne testa fino a 25 per ogni singolo post) gli ingredienti principali del loro successo.
Non si parla più di coprire i fatti “importanti” che accadono nel mondo, ma di scovare col lanternino quelli strani, assurdi, ridicoli, in grado di scatenare la condivisione e la viralità.
E nascono anche gli esperti in questo strano campo, come Neetzan Zimmerman: un uomo che da solo è in grado di generare oltre 30 milioni di pageview al mese.
E chi non si adegua a questo trend?
Semplice, perde traffico. E quindi soldi.
Perdono i principali gruppi editoriali italiani, ma anche i pure player presenti solo online: nonostante strizzino da tempo l’occhio alle notizie-spazzatura, mostrano bilanci in picchiata.
Che poi, dico io: il pubblico di lettori italiani di news generaliste è quello, è più o meno stabile da diverso tempo. Se lo mangiano Repubblica.it e Corriere.it, almeno in gran parte.
Che cavolo di business plan avete fatto, voi de Il Post , Lettera 43, Linkiesta, Huffington Post (con i suoi bei blogger NON pagati)? Pensavate forse che i lettori si sarebbe moltiplicati come per magia? O che avrebbero letto una mezza dozzina di testate al giorno, tutte più o meno identiche?
In questo scenario campano i one man show (magari studenti, o magari con vitto e alloggio pagato dai genitori), alcuni micro editori che sottopagano (o non pagano) chi scrive per loro (non parlo di Huffington Post 🙂 ), o quelli che il sito/blog è in realtà una vetrina per vendere loro stessi.
Altri casi di successo, sono rari come gli unicorni.