editoria online

Si fa presto ad usare termini come “rivoluzione digitale”, oppure “de-materializzazione dei contenuti” e “abbattimento dei costi”. Dietro le parole esistono le aziende, che vivono fondandosi sul proprio business model, e non sulle ali di un entusiasmo spesso effimero. Il mondo dell’editoria sta attraversando da anni un periodo di transizione, quel momento durante il quale le certezze del passato cessano di essere tali e vengono rimpiazzate con nuove dinamiche, ruoli, identità. Basti pensare alla crisi della carta stampata, da molti affrontata con faciloneria al grido di “il futuro del giornalismo è su Internet!”. Possibile e probabile, ma con quali modalità?

L’advertising non basta

La soluzione sembrava ovvia: con i notevoli risparmi portati dal taglio dei costi sulla stampa (e sulla distribuzione) sarebbe poi stato possibile mantenere la gratuità dei giornali via web grazie agli introiti garantiti dalle pubblicità. Le cose non sono andate esattamente in questa maniera. Andando a leggere i report pubblicati dalla NAA (Newspaper Association of America) notiamo come nel 2012 la crescita degli introiti per gli spazi pubblicitari online stia rallentando, non tiene quindi lo stesso ritmo del decremento delle revenue delle corrispondenti edizioni cartacee, tanto che il dato aggregato mostra perdite trimestrali dell’ordine del 5-6%.

Quali potrebbero essere i motivi scatenanti di questo trend?

Saturazione: l’epoca pionieristica del Web è finita da un pezzo, ormai qualsiasi testata ha una propria identità online, spesso ben distinta dalla controparte cartacea. Questo significa che pur essendoci una grossa torta di advertising a disposizione, quella torta andrà suddivisa in tante fette. Più concorrenza, meno impressions.

Ribasso dell’offerta: il mondo del web advertising è saldamente in mano alle piattaforme di ads exchange (basti pensare a circuiti come BuySellAds), che hanno fondato la loro fortuna sulla comodità di far incontrare domanda ed offerta, ma anche sulla capacità di vendere spazi a prezzi scontati, trattenendo inoltre delle commissioni non indifferenti (almeno il 30%). Questo ha portato ad un complessivo abbassamento della singola tariffa pubblicitaria. Qual è il risultato di queste nostre riflessioni? Il modello di testata online con contenuti gratuiti e ricavi esclusivi dalla pubblicità non è sostenibile.

I Pay Walls funzionano?

Negli USA se ne sono accorti da un pezzo, e stanno correndo più o meno tutti ai ripari, cercando altre soluzioni per monetizzare. Colossi come il Wall Street Journal e il New York Times hanno introdotto un sistema di abbonamento che lascia ai lettori casuali soltanto qualche decina di articoli free al mese.

E’ stato un rischio, in fondo sono stati proprio gli editori a mettersi in questa situazione fornendo per 15 anni contenuti gratuiti a chiunque, ma sembra che le cose stiano comunque funzionando: il 25% delle testate Web americane ottiene già ricavi in questa modalità, e nonostante nascano sempre nuovi trucchi per aggirare i blocchi (via Javascript, via cookie…), il feedback è buono, dato che il tasso di crescita degli abbonati digitali al NYT è del 10% mensile.

Fuori dagli USA, che rappresentano il mercato più maturo per il web, composto da utenti che non si fanno problemi ad acquistare, è esportabile il modello pay wall? I Big italiani (Repubblica e Corriere) ci stanno pensando da un bel po’, con tutte le contro-indicazioni del caso: il Bel Paese è ai vertici delle classifiche di pirateria online, e una scelta troppo drastica potrebbe avere il solo effetto di perdere visitatori a favore di chi manterrebbe una fruibilità di contenuti free. L’importazione di un modello come quello dell’Huffington Post, con una redazione “standard” e una batteria di blogger non retribuiti, potrebbe essere il preambolo mentale per far pagare, in futuro, i contenuti redatti da giornalisti professionisti.

Contro gli aggregatori

In Europa il tiro è stato spostato da tempo sugli aggregatori di notizie, sui motori di ricerca e, in particolare, sul “pesce grosso” Google News, reo di lucrare sui contenuti altrui. La richiesta è molto semplice: politici e lobbysti del mondo editoriale vogliono imporre a Big G di pagare un contributo alle testate proprietarie dei contenuti che pubblica sulle sue SERP, pena la richiesta di rimozione delle fonti dall’aggregatore.

Quelli di Mountain View non sono certo rimasti a guardare. In Germania, dove ad Agosto è stata approvata una legge sul copyright (“Leistungsschutzrecht für Presseverleger”) che fornisce agli editori l’esclusività sul Web dei contenuti per il primo anno di pubblicazione, è stata lanciata una petizione online che sensibilizza gli utenti sui possibili problemi che potrebbero incontrare nel reperire informazioni online. In Francia, invece, lo scontro è più diretto e aggressivo. Il governo transalpino ha dato tempo all’azienda di Brin e Page fino a fine anno per poter scegliere di pagare volontariamente gli editori, in caso contrario potrebbe legiferare un tributo “ad hoc”.

La risposta di Eric Schmidt, che un mese fa sul tema ha incontrato il presidente Hollande, è stata ferale: in quel caso Google sarebbe costretta ad escludere tutti i siti francesi di notizie dal suo motore di ricerca. Chi ottiene più vantaggi da questa convivenza, un search engine nel visualizzare risultati interessanti, oppure una testata online nell’essere indicizzata e ricevere traffico da un motore di ricerca? Si tratta di una questione epocale, e il fatto che Google News non guadagni direttamente (non pubblica ads) e visualizzi soltanto degli estratti dei contenuti fa capire quanto questa battaglia sul Fair Use del copyright sia più che altro un gioco di equilibri e di forze per trovare un compromesso.

Vi ricordate quando, tempo fa, Carlo De Benedetti lanciò anch’egli il sasso nello stagno di Google? In Italia si risolse in un fuoco di paglia, ma altrove l’hanno presa più sul serio, basti pensare che in Brasile ben 154 testate appartenenti all’associazione locale hanno chiesto l’uscita dall’aggregazione di Google News. Si tratta del 90% del numero di giornali complessivi del Paese, e forse proprio la forza massiva di quest’azione ha portato un esito indolore per questi siti d’informazione, che non hanno avuto significativi cali di traffico. Con buona pace di Big G …

Digital publishing, non tutto rose

Aldilà delle guerre corporative, è chiaro a tutti come gli editori debbano diversificare i propri canali digitali di revenue per sopravvivere. Affidarsi ad un solo tipo di introito, oltre che insufficiente, equivale a compiere una roulette russa con il destino.

L’esplosione del mercato dei tablet, un paio di anni fa, ha introdotto un’altra possibile evoluzione per il giornalismo: il digital publishing, ovvero pubblicare un giornale direttamente su tablet, con prezzi equivalenti alla versione cartacea. Vendere un giornale al prezzo della versione cartacea, senza i costi della carta: un sogno? Forse, ma il risveglio di qualche giorno fa è stato brusco. E’ stata difatti annunciata la chiusura del The Daily, il primo quotidiano nato e pubblicato esclusivamente per iPad, che non arriva ai due anni di vita e che non ha mai visto un pareggio di bilancio.

Un flop clamoroso, se si pensa che dietro questa testata c’era l’impero mediatico di Rupert Murdoch, e che l’operazione ha visto la Apple protagonista in prima persona. Nonostante questi presupposti, il (presunto) simbolo della rivoluzione digitale non ha avuto scampo, dato che ha raggiunto a malapena la metà degli abbonamenti necessari per il break-even point, ed anche la decurtazione del prezzo non ha sortito alcun effetto benefico. L’esperienza del “The Daily” ha fornito un po’ d’insegnamenti:

  • Vendere riviste per tablet è difficile, se anche l’Huffington Post ha dovuto retrocedere verso la gratuità
  • L’evoluzione della comunicazione non passa soltanto dalla de-materializzazione: “copiare” un giornale cartaceo in digitale non ha senso dal punto di vista della user experience, e produce dei contenuti “pesanti” (centinaia di Mb)
  • Le difficoltà a raggiungere un audience possono aumentare, se si sceglie di esistere esclusivamente su un eco-sistema (iOS)

Conclusioni

In buona sostanza, al momento non esiste una “ricetta magica” che possa far compiere agli editori un salto generazionale privo di morti o feriti. E’ chiaro che si sta creando uno strappo culturale ben più profondo (oltre 500 anni dai tempi di Gutenberg) di quello operato per il settore musicale. E lo scenario è lungi dall’apparire definito. E voi che scenario immaginate, per l’editoria?

Autore: Enrico Giammarco, ex-giornalista e attualmente blogger, per il Max Valle.

Si occupa di tecnologia, cultura digitale e social media su Webpointzero.com.

Max Valle

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