crouwdsourcing

I consueti “Media Monthly Report” di Nielsen (qui quello di Ottobre 2010) disegnano da mesi un quadro molto positivo per Internet, e più nello specifico per la pubblicità (sia online che su tutti gli altri media, eccetto la carta). Ma subito dopo leggo che una piccola agenzia pubblicitaria su dieci ha chiuso e che anche i grossi nomi arrancano a stento, mentre nel frattempo licenziano allegramente.

Si fa fatica a capire come da un lato il web sembra essere uno dei pochissimi settori in crescita, e dall’altro si continua insistentemente a parlare di crisi, anche per i “lavoratori di Internet”. E nella ricerca del capro espiatorio, spunta spesso un nome: crowdsourcing. Hai bisogno di un logo, o di disegnare il layout del tuo sito web? vai su 99designs, dove decine di persone si scanneranno per produrlo ad una frazione del prezzo del tuo grafico o del tuo web designer di fiducia.

Necessiti di una idea per una campagna pubblicitaria? via su Zooppa e troverai creativi a mazzi, a prezzi ridicoli (rispetto a quelli delle più blasonate agenzie). Parliamo insomma di marketplace: da un lato i produttori, spesso freelance che lavorano per poco, dall’altro i committenti, che tirano il prezzo all’inverosimile. Tutto finisce al ribasso, e il mercato “marcisce”. Nel mondo dei contenuti è pure peggio: da anni ci sono vere e proprie “content farm”, fabbriche di contenuti low cost che sfornano (e monetizzano!) migliaia e migliaia di pezzi.

Forse la più famosa fra queste è Demand Media, che scodella qualcosa come 5.700 contenuti al giorno (fra video e articoli); ma anche la “nostrana” Populis, ex GoAdv, può vantare la bellezza di una produzione di 20.000 articoli al mese. In questo quadro di enormi quantità, non è detto che non ci sia anche qualità: ad esempio, fra le aziende che si sono rivolte a Zooppa vedo fior di nomi, che han dato poi testimonianze positive del lavoro svolto dai creativi. E credo anche che fra le migliaia di articoli prodotti per le content farm, ce ne siano parecchi di grande valore.

Chi li scrive, però, preferisce cederli per un piccolo prezzo fisso, piuttosto che pubblicarli in un proprio contenitore. In buona sostanza, non ama il rischio e così facendo impoverisce il web, rendendolo un posto più anonimo e meno personale, un posto dove (forse) ti ricordi il nome del contenitore, ma non di quello che ha scritto quel contenuto. Oppure, all’opposto, il nome di chi scrive è messo in bella evidenza all’interno del contenitore, e l’idea del “poter scrivere per qualcuno importante” è proprio quella su cui fan leva alcuni editori, per pagare poco (o nulla) un esercito di articolisti.

Il futuro ci mostrerà vincitori e vinti, chi all’interno di questo meccanismo si arricchisce e chi si accontenta di una pacca sulle spalle: di certo c’è che Demand Media è stata finanziata per 375 milioni di dollari, e Associated Content è stata comprata da Yahoo! per 100 milioni. Qualcuno i soldi, grazie al crowdsourcing, li fa.

Max Valle

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