Nel corso degli anni le metriche del web si sono perfezionate nella misurazione della quantità, ma non sul fronte della qualità. Utenti unici, visite e pagine visualizzate rimangono lo standard per misurare la bontà di un sito: più questi numeri sono alti, più il sito è appetibile per gli inserzionisti, mentre ad oggi non c’è ancora un buon sistema che consenta di pesare l’autorevolezza e l’influenza di chi ci legge. Con la conseguenza che chi sul web fa piccoli numeri spesso fa la fame, anche se magari ha dei lettori che valgono oro. Questa situazione è destinata a cambiare?
Non lo so. Da un lato abbiamo infatti gli strenui difensori della privacy, che odiano ogni tipo di profilazione e cancellano dal PC tutti i cookie e script che possano tracciarli in qualche maniera: non c’è dunque modo di sapere chi sia il visitatore tipo, e gli unici dati che possiamo ottenere sono spesso solo quelli che rimangono intrappolati nella rete del nostro analytics, o alla peggio nel file di log.
Dall’altro lato abbiamo invece chi vuole modificare il concetto di privacy fino a stravolgerlo, anche (o soprattutto?) per fini commerciali: nelle orecchie di molti risuona ancora la frase “Ormai gli utenti condividono senza problemi le informazioni personali online. Le norme sociali cambiano nel tempo. E così è anche per la privacy”, pronunciata da Mark Zuckerberg un paio di anni fa.
Se l’utente medio preferisce la riservatezza, son certo che l’editore medio avrebbe molte più armi (e farebbe molti più soldi) se sapesse vita, morte e miracoli dei suoi lettori. E qui i social possono dargli una mano. Pensa ai bottoncini di Facebook, Twitter e Google+. Quando un utente legge un articolo e clicca su uno di quei pulsantini, oltre a mostrare apprezzamento per il pezzo (e/o a condividerlo con i suoi contatti) arricchisce di preziosissime informazioni i database delle 3 aziende.
Per esempio, Facebook può sapere che all’utente X piacciono i post del TagliaBlog, e nel contempo che è un decisore di una importante azienda che a sua volta ha 1.000 contatti influenti. Facebook può anche capire che gli utenti che normalmente cliccano sul “Mi piace” dei post sono principalmente di una certa fascia di età, hanno un certo sesso, e determinati interessi e preferenze. In altre parole, Facebook (ma anche Twitter e Google, anche se con sfumature diverse) può tracciare con grande precisione il profilo dei tipici lettori di un sito/blog, conoscendone aspetti che vanno al di là della semplice “numerosità”.
Ed ecco lo scenario che prevedo, e che probabilmente farà felici molti (piccoli) editori: gli annunci pubblicitari di Facebook usciranno dal social network, per finire all’interno delle pagine web. Pensaci bene: Facebook è tecnicamente in grado di mostrare banner molto più pertinenti (e quindi meglio pagati…) rispetto a tutti gli altri network pubblicitari. Può farlo non perché “legge” il contenuto della pagina e quindi contestualizza l’annuncio, ma perché conosce l’utente che frequenta abitualmente quel sito.
Conosce la sua età, il suo sesso, i suoi interessi, le sue preferenze, le sue amicizie, e probabilmente riesce anche ad “immaginare” il suo reddito e la sua propensione di spesa in quel momento. Ed ecco che allora gli propone il banner giusto, al momento giusto, e il gioco è fatto: il lettore “altospendente e cliccante” (e magari pure autorevole e influente) è una vera manna per ogni inserzionista pubblicitario, ed è il sogno di tutti i siti/blog, piccoli o grandi che siano.
Il problema, fino ad oggi, era riuscire ad individuare questo utente con certezza. Ma abbassando un pochino il muro della privacy, editori, social e inserzionisti andranno a nozze.